INDAGINE SUI DIRITTI DELL'UOMO

Genealogia di una morale

di Stefano Vaj


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Lo stoicismo (1, VI)

La nostra ricerca sulle pretese radici precristiane del giusnaturalismo e della teorica dei Diritti, non può certo eludere, nell’affrontare il pensiero greco, il problema del diritto naturale stoico. Problema certo non facilmente resolubile in termini complessivi e conclusivi, in ragione di una serie di difficoltà che subito si presentano. Innanzitutto l’ampiezza dell’arco cronologico e del ventaglio di opinioni lungo cui si distende lo stoicismo come corrente filosofica, da Zenone agli epigoni dello stoicismo romano, complicata dalla scarsezza e non univocità delle notizie a nostra disposizione, come mette particolarmente in luce il Pohlenz (1). Secondariamente una certa perdita di rigore teorico che affligge lo stoicismo proprio in sede di fondazione della ragion pratica: come è stato notato, la predicazione morale stoica accoglie ammonizioni e indirizzi pratici forse del tutto apprezzabili alla luce del senso comune, ed in particolare del senso comune cristiano e poi latu sensu umanista che si affermerà nei secoli successivi, ma talvolta difficili da giustificare nel quadro del sistema filosofico della Stoa.

Infine, parafrasando il Russell, «lo stoicismo è la meno greca di tutte le scuole filosofiche di cui ci siamo fin qui occupati» (2). Tarn, in The Hellenistic Civilization, porta sullo stoicismo il sospetto di condizionanti influenze caldee. Zenone stesso, originario di Cipro, era fenicio, mentre Cleante giunse ad Atene da Asso in Asia minore e Crisippo da Tarso in Cilicia. Scrive Baldry: «From these Eastern associations the inference is often drawn that Stoicism, including the Stoic attitude towards human relationship, was an Oriental strain now introduced by these “foreigners” and previously alien to the Greek mind. There may be some degree of truth in this supposition: certainly Zeno is likely to have been bilingual» (3). Günther, che «salva» in certo modo il primo stoicismo, sottolinea ugualmente il carattere «orientale» dello stoicismo romano con toni che sfiorano l’invettiva: « Levantini immigrati, specialmente ebrei, che posavano ad Elleni e Romani, per eludere l’antico disprezzo degli stranieri, tentarono di presentare l’umanesimo [l’autore qui intende il concetto di humanitas] come una dottrina dell’uguaglianza e della fratellanza, di fronte alla quale non dovevano più esistere diversità di stirpe, ma solo l’uomo e l’umanità. Questa dottrina umanitaria era destinata a svuotare l’ideale umanistico dell’uomo nobile, coraggioso e bello» (4).

Si è in contrario sostenuto che l’essere greco, all’epoca; costituiva molto più un fatto di cultura ed educazione che di sangue e di origini. Sul che si può consentire; ricordando però che è proprio la diluizione - e di conseguenza l’inquinamento - della cultura greca nell’ellenismo a trasformarne profondamente lo spirito, il linguaggio e il significato.

Quali siano i meriti da attribuire alle contaminazioni esterne e quali alla decadenza interna del pensiero greco per i vari aspetti della mentalità degli stoici (e di tutta la loro epoca, del resto), è certo che questa corrente costituisce l’espressione saliente del momento di massima espansione, e di massima crisi, della civiltà classica. Pur restando legato all’eredità della filosofia precedente, lo stoicismo è la veste intellettuale dell’esplosione delle appartenenze, della perdita di identità, della «secolarizzazione» - nel senso di intellettualizzazione - definitiva dello spirito religioso antico, della scomparsa di quella visione della storia che vede l’uomo faber fortunae suae ed artifex historiae, prescrive l’impegno civile ed invita all’autoperpetuazione ed al superamento di sé. Scrive Spengler: «La morale plebea di Epicuro e della Stoa (...) studia invece una tattica per scansare il destino. Ciò che in Eschilo era grande nella Stoa diviene piccino. Non più. una pienezza bensì una povertà, una frigidità e una vuotezza della vita, e i Romani seppero solo dare proporzioni grandiose a questa freddezza e a questo vuoto. (...) L’onnipotenza della ragione è il punto di partenza di ogni riflessione morale. Se per essa si intende la fede nella realtà metafisica, la religione qui non entra in questione. Nulla è così lontano dalla religione di tutti questi sistemi, se considerati nella loro forma originaria» (5). A parte la difficoltà insita nel definire «plebea» l’etica stoica, che è anzi chiusa in un aristocraticismo sapienziale che non accetta più confronti col mondo, l’autore di Der Mensch und die Technik ci pare cogliere nel segno. Panteista o materialista, meccanicista o provvidenzialista, lo stoicismo ci pare sempre coincidere con questa crisi dei significati tradizionali e con la ricerca di sostitutivi razionalistici fondamentalmente consolatori. Primo tra questi, la doverosità etica dell’abbandonarsi ad un destino ormai divenuto deterministico - con tutte le contraddizioni che questo precetto comporta - nel quadro di un disegno che impregna e rende necessario e automaticamente dotato di senso tutto il mondo.

Identificato questo disegno in un principio di ragione universale cui l’uomo partecipa in quanto tale, non vi è che un passo per giungere allo svuotamento del significato etico delle comunità politiche ed etniche. E questo passo viene compiuto facilmente nel clima cuiturale indifferentista e decadente dell’ellenismo. Il cosmopolitismo diventa così il primo fondamentale contributo stoico all’universalismo dei diritti dell’uomo.

Un secondo punto che il giusnaturalismo eredita dallo stoicismo è una certa confusione, a parer nostro, a proposito dell’idea di natura. La natura, che è definibile come l’insieme di tutto ciò che esiste in questo mondo e, vista nel suo divenire, di tutto ciò che vi accade, è, dicono gli stoici, razionale. Messa com’è dal λόγος, che è principio stesso di ragione, non soltanto la natura è deterministica, ma ciò che in natura esiste ed accade è necessario, ed addirittura teleologicamente ordinato: impostazione questa in cui sono evidenti non solo gli influssi aristotelici, ma altresì le influenze orientali comprovate dall’accoglimento dell’astrologia e delle altre tecniche divinatorie di importazione asiatica.

Ora, gli uomini, tutti e soltanto gli uomini, partecipano direttamente come esseri razionali alla ragione universale. E anzi la ragione che li rende umani e che li distingue dal resto del mondo animato e inanimato. Diventa perciò - anche se il passaggio logico non è chiaro - per essi «naturale» e doveroso conformarsi col proprio comportamento ed atteggiamento spirituale alla ragione universale che agisce e si manifesta nella natura. Del resto, è proprio la ragione che permetterebbe all’uomo di cogliere nella natura un disegno cosmica e quindi a mostrare l’inanità di ogni opposizione umana a ciò che comunque deve essere e accadere. Gli sviluppi ulteriori sono ben noti: essendo la felicità - o meglio la pace, la «consolazione» boeziana di fronte ai mali del mondo - il fine più o meno esplicito cui si tende, sono da respingere le passioni che distolgono dall’atarassica contemplazione, consapevolezza e comprensione che il male non esiste e che tutto è governato da un fato razionale.

Le contraddizioni di una teoria di questo tipo sono arcinote, e non affliggono soltanto il sistema teorico stoico. Se tutto ciò che accade si inserisce in un disegno cosmico necessario, in questo disegno rientrano anche i comportamenti e gli atteggiamenti umani, e non si vede come lo stoico possa considerarne alcuni come doverosi per un uomo in realtà senza alcuna possibilità di incidervi volontariamente. D’altra parte, e soprattutto, se la natura comprende anche ciò che è comunemente considerato male - e per di più lo comprende in un disegno razionale -, non può non comprendere anche ciò che lo stoico considera male, compreso l’animo dominato dalle passioni o i comportamenti reali che esistono e pure sono contrari alle «inclinazioni naturali» razionalmente definite dagli stoici. Nel momento in cui si vuole fondare un’etica sull’oggettività di un mondo globalmente e teleologicamente determinato, d’altra parte in questo mondo stesso lo spazio per idee di morale e di giustizia si restringe - per quanto possiamo giudicare non esiste proprio.

Queste obiezioni possono essere - e storicamente sono state - formulate in innumerevoli modi, a partire quanto meno da Carneade (6). Il loro significato, almeno per quanto attiene alla sfera dei giudizi etici, ci sembra sostanzialmente questo: se la natura e il mondo sono razionali ed integralmente dotati di significato, il che è presupposto per l’obbiettività e l’universalità del giudizio dello stoico, quest’ultimo non ha più alcuna legittimazione per definire un comportamento o un atteggiamento dato «conforme a natura», o a ragione, o a giustizia, rispetto ad un altro. O meglio, lo può fare solo in base ad un concetto di naturalità, razionalità - ovvero ragionevolezza -, giustizia, per così dire «arricchito», di secondo grado, rispetto al puro carattere necessariamente naturale, razionale, eccetera di tutto ciò che accade. Deve cioè in certo qual modo ritornare ad appoggiarsi al volontarismo di una scelta di valori, che resta inavvertita ed implicita solo nella misura in cui è condivisa dall’interlocutore (7).

Questi due punti - il cosmopolitismo ed un concetto di «naturale» bivalente - ci sembrano i due contributi principali del pensiero stoico, alle categorie su cui il cristianesimo costruirà l’idea di diritto naturale nella sua normale accezione. E questi contributi appaiono altresì largamente originali, come pure l’idea di δίϰαιον ϕύσει che su di essi viene costruita. Ci sembra abbia così torto, come abbiamo già avuto modo di tentare di dimostrare, Baldry quando scrive (op. cit.), commentando l’enfasi di Crisippo su «the universality of law»: «Belief in the universality of natural law, it may be said, had been stated long ago by Heraclitus and dramatised by Sophocles in the Antigone»: opinione che avevano già riscontrato in Maritain, La Chapelle, eccetera.

L’idea di «giustizia naturale» che gli stoici arrivarono ad elaborare sulla base della naturale e comune partecipazione degli uomini alla ragione universale - onde gli uomini sono quanto a questo eguali ed in loro sono presenti idee innate di giusto suscettibili di essere sviluppate nelle stesse proposizioni - non può però nemmeno essere stiracchiata fino a contenere ciò che non contiene. Se è vero che, come afferma Alois Schubert, «Die Stoa führt alle Rechte und Gesetze auf dem Logos koinòs zurück» (8), per lo stoico il fine resta l’imperturbabilità per le cose del mondo e il nodo centrale la partecipazione e la conformazione al λόγος. Come osserva Angel Sanchez de la Torre, nella visione stoica il solo dovere e il solo scampo per il singolo è dato dalla lucidità o consapevolezza di un’appartenenza alla ϕύσις, così che la cosmologia è propedeutica all’etica, mentre viceversa le leggi fisiche sono analogia delle leggi psicologiche; come il λόγος è principio cosmico, così è principio antropologico, e il problema etico viene presentato come partecipazione al λόγος (9).

Se la virtù è l’unico bene, e la virtù consiste in una volontà interna che sia in accordo con la natura, con tutto ciò che avviene in natura, tutto ciò che c’è di veramente buono o cattivo nella vita di un uomo non dipende che da lui, e l’ingiustizia al minimo è indifferente, al massimo costituisce anzi un’occasione per cimentare la propria virtù.

Con questi presupposti, il diritto naturale stoico non può che avere un carattere ambiguo. La naturale fratellanza tra gli uomini, il codice innato di comportamento reciproco confinano volta a volta con il principio puramente razionale (10), con il rinvenimento di caratteristiche vere o presunte comuni a tutte le società umane, con una legge naturale ineludibile ed effettiva indipendentemente dalla volontà e dall’osservanza umana quanto le leggi che regolano il moto degli astri, - ed una «legge» necessariamente cogente e di cui sia impossibile la tragressione non può certo essere considerata una norma in senso giuridico o morale (11).

Per Crisippo «la legge ha signoria su tutte le cose, divine ed umane» (12)

Ma bisogna vedere di che legge si parli: se delle leggi della causalità naturale, delle leggi evolutive della razionalità interna del λόγος, o di principi di comportamento assunti come doverosi. L’idea di libertà naturale di tutti gli uomini, ad esempio, non sembra comportare alcuna conseguenza etico-politica ancora in epoca tardissima, presso gli stoici romani come Seneca e Marco Aurelio. La sua natura è quella di un dato, da una parte senz’altro ineliminabile da parte delle forme politiche e sociali contingenti, ma dall’altra senza logiche conseguenze rispetto a queste. Se l’uomo è naturalmente libero anche schiavo, anche in catene, l’ordine naturale è perfettamente realizzato ed operante anche quando appunto egli è schiavo e in catene. Il punto di vista opposto - se è naturalmente libero, deve esserlo anche civilmente, e quindi dev’essere liberato - è una posizione in realtà neostoica e fondamentalmente postcristiana. Trattando dell’idea cristiana di libertà, Michel Villey sembra sottintendere qualcosa di simile quando scrive, a proposito dell’antichità: «Autre espèce d’anthropologie. Et s’il ést vrai que des stoiciens ont proféré ce paradoxe que tous les hommes seraient naturellement libres, ce n’était encore que par métaphore» (13).

E innegabile che parallelamente al progressivo affermarsi delle preoccupazioni etiche, la predicazione stoica finisca, in particolare a Roma, per dedurre implicazioni morali dall’appartenenza degli uomini ad un’unica famiglia universale; e questo tanto più le influenze orientali, l’affermarsi di mentalità e di correnti cariche di pathos, di universalismo e di misticismo, annunciavano la nuova era. Ma ancora Marco Aurelio, che pensa che «Gli uomini sono nati gli uni per gli altri», non esita a scrivere: «La cattiveria dell’uomo non danneggia gli altri»; e più sopra: «Si confà a me tutto ciò che si confà a te, Universo. Nulla è per me troppo presto o troppo tardi di ciò che per te avviene al tempo giusto. Per me è frutto tutto ciò che le tue stagioni portano, o Natura: da te vengono tutte le cose, in te sono tutte le cose, a te tornano tutte le cose. Il poeta dice: cara città di Cecrope; e non dirai tu: cara città di Zeus?» (14).



Stefano Vaj


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(1) MAX POHLENZ, Die Stoa. Geschichte einer geistiger Bewegung, Gottinga 1948, forse lo studio più ampio e approfondito sul pensiero stoico, cui facciamo riferimento per quanto segue.

(2) Storia della filosofia occidentale, op. cit.

(3) The Unity of Mankind in Greek Thought, op. cit.

(4) HANS F. K. GÜNTHER, Humanitas, Edizioni di Ar, Padova 1977; onde avrebbe torto CARLO ALBERTO MASCHI, che considera l’humanitas romana una sorta di anticipazione della caritas cristiana (Storia del diritto romano, Vita e Pensiero, Milano 1979).

(5) Il tramonto dell’occidente, op. cit.

(6) Un approccio particolarmente interessante al problema è ad esempio tra i con temporanei quello di CLEMENT ROSSET (Le réel et son double, Gallimard, Parigi 1976). Una discussione delle inclinazioni naturali (ὁρμαί) nel pensiero stoico la troviamo invece in DARIO COMPOSTA, Natura e ragione, op. cit.

(7) Pur non riferito direttamente agli stoici, cfr. ARMIN MOHLER, «Le tournant nominaliste», in Nouvelle Ecole, n. 32, estate 1979.

(8) ALOIS SCHUBERT, «Augustinus Lex aeterna. Lehre nach Inhalt und Quellen», in Beiträge zur Geschichte der Philosophie des Mittelalters, H. 24, 1954.

(9) ANGEL SANCHEZ DE LA TORRE, Los Griegos y el Derecho natural, Madrid 1962.

(10) In questo senso va ad esempio inteso l’amore per il prossimo nell’accezione stoica, ispirato dal quale CICERONE nel De legibus, a proposito delle inclinazioni naturali déll’uomo alla socialità, scrive: «Nam hae nascuntur ex eo quod natura propensi sumus ad diligendos homines; quod fondamentum iuris est». In realtà l’amore che lo stoico prova per gli altri non è che un’espressione particolare del principio cosmico dell’ἔρος ϰοσμόγονος, per cui l’uomo ha un’inclinazione naturale innanzitutto ad amare se stesso, poi i congiunti via via più lontani, ed infine l’intero genere umano; ed in questo amore razionale non vi è posto per l’affetto o per le passioni - che com’è noto sono condannate. Ricorda RUSSELL (op. cit.): «Quando sua moglie e i suoi figli [dello stoico] muoiono, riflette che quest’avvenimento non è d’ostacolo alla sua virtù e non ne soffre profondamente. L’amicizia, così altamente apprezzata da Epicuro, va benissimo, ma non deve portarci al punto che le disgrazie dei nostri amici distruggano la nostra beata tranquillità».

(11) L’equivocità del concetto di legge, che da un lato può indicare una norma (giuridica, morale, convenzionali, di cortesia...) e dall’altro può significare semplicemente i legami causali o la ricorrenza dei fenomeni, trae origine da una metafora, giustificata dalla capacità dell’uomo, come soggetto conoscente di porre un ordine e un significato e un senso nella sua percezione del mondo, attraverso una serie di strumenti biologicamente o culturalmente a sua disposizione (cfr. KONRAD LORENZ, L’altra faccia dello specchio, Adelphi, Milano 19711). La confusione nasce quando sono le leggi umane a divenire in certo modo metafore di un ordine cosmico che diventa a sua volta razionale e dato-in-sé, dotato di un’esistenza autonoma.

(12) CRISIPPO, Περὶ τοῦ νόμου, I, I.

(13) MICHEL VILLEY «Le positivisme juridique moderne et le christianisme», in Cristianesimo secolarizzazione e diritto moderno, a cura di L. LOMBARDI VALLAURI e G. DILCHER, Giuffrè, Milano 1981.

(14) MARCO AURELIO, Ricordi.