INDAGINE SUI DIRITTI DELL'UOMO

Genealogia di una morale

di Stefano Vaj


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PREFAZIONE
di Julien Freund

L’idea dei diritti dell’uomo appartiene in proprio alla sensibilità umanitarista del nostro tempo. Essa ci pare talmente evidente e limpida, di validità tanto universale, che certi autori si sono domandati perché essa non sia apparsa che così tardivamente alla coscienza umana. In realtà, questa idea comporta la sua parte di imperfezioni e pregiudizi come ogni costruzione umana. Sfortunatamente, per il fatto di sembrarci tanto manifesta e semplice, l’accettiamo come un tempo ci si piegava davanti all’argomento ex auctoritate senza provare ad approfondire il problema e senza neppure darsi la pena di valutarne il significato. Tutto si svolge come se una vera riflessione configurasse un sacrilegio - ivi compreso presso gli intellettuali che, per vocazione, sottomettono tutto alla critica.

Bisogna dunque saper lacerare con audacia il velo di sospetto generale, per non dire di aperta riprovazione, per poter intraprendere un esame dal punto di vista filosofico, storico, sociologico, o semplicemente scientifico, delle implicazioni di una questione tanto delicata quanto quella dei diritti dell’uomo. Ed è a questo genere di lavoro che si è dedicato Stefano  Vaj in quest’opera, prendendo particolarmente in considerazione gli aspetti storici dell’analisi. Ciononostante, pur attenendosi deliberatamente a questi limiti, è stato condotto dalla trattazione a porsi degli interrogativi che travalicano la ricostruzione del cammino storico percorso da questa dottrina, non fosse che per il fatto che la storia non si spiega soltanto con se stessa - non più di quanto il sociale o l’economico si spieghino soltanto con il sociale e l’economico. La storia dei Diritti non è pertanto realmente intelleggibile che a condizione di dare all’interrogativo storico una dimensione filosofica più generale.

L’idea dei diritti dell’uomo non è certo nata per miracolo nel secolo dei Lumi come estemporanea figlia del progresso. È stata invece soltanto una formulazione storicamente nuova di una preoccupazione costante del pensiero cristiano ed occidentale. Vaj rintraccia le tappe di questo lungo cammino, discernendo le vere radici di quest’idea al di là dei luoghi comuni in proposito. Luoghi comuni riassumibili nella visione secondo cui la sua prima percezione si troverebbe nell’Antigone di Sofocle, quando l’eroina oppone ai decreti contingenti ed arbitrari di Creonte l’esistenza di leggi non scritte, Eraclito farebbe dipendere le leggi umane dalla sovranità di una legge divina, e Aristotele darebbe corpo e rigore a questa idea sotto la denominazione di diritto naturale, che i giureconsulti romani avrebbero poi completato con lo jus gentium, insieme di diritti universalmente valevoli per tutti gli uomini e i popoli della terra, qualunque sia lo statuto di diritto civile proprio ad ogni unità politica.

Non è il caso invece di riassumere qui, in qualche riga, il vero sviluppo di questa idea, con connotazioni variamente differenziate, nella tradizione giudeocristiana, nel medioevo, nell’epoca moderna. Lasciamo ai lettori di quest’opera l’apprezzare la maestria erudita e sagace dell’autore nel mettere in luce il ruolo rivestito dai Padri della Chiesa, da San Tomaso, da Grozio, da Hobbes, Locke, Rousseau e nel riassumerne le concezioni. Vorrei soltanto evocare qui qualche problema che la lettura suggerisce o rivela più direttamente.

Una cosa è dunque certa: le Dichiarazioni moderne sono eredi di una lunga tradizione. Si può forse dire ciononostante che rappresentino in un certo modo una continuazione od un perfezionamento delle dottrine anteriori in materia di jus gentium, una sorta di loro prolungamento? Queste ultime si richiamavano ad una filosofia dell’uomo, ovvero, seguendo la terminologia utilizzata da Vaj, ad un’antropologia «altra» rispetto a quella che presiede a queste dichiarazioni. In effetti, le Dichiarazioni sono figlie di una concezione che vede l’uomo come individuo puro ed astratto, come soggetto di diritti consustanziali, enumerabili e suscettibili di essere specificati una volta per tutte. Implicano perciò una filosofia, quella dell’individualismo, che è contestabile come ogni filosofia, e che, di conseguenza, non ha alcuna validità categorica con esclusione di ogni possibile alternativa e diverso presupposto. Le dottrine del diritto delle genti, ad esempio, consideravano l’uomo altrimenti, come membro di una comunità provvista di una capacità ordinatrice. La protezione dei diritti del singolo consociato era dunque assicurata per il tramite della comunità, i cui membri godevano in vario modo, collettivamente e singolarmente, di franchigie, di immunità e di libertà. Il singolo era un libero cittadino nel quadro della libertà della comunità alla quale apparteneva. La sua protezione non attineva a diritti contabilizzati in testi metapositivi, ma ad una garanzia generale che la comunità accordava, non nel senso di una giustizia universale e astratta, ma di un’equità concreta e flessibile cui si trovavano associati tutti i suoi membri.

Le Dichiarazioni moderne non conoscono insomma che l’opposizione tra l’individuo anonimo e il potere statale anonimo, senza alcuna intermediazione capace di accomodare la rigidità dell’ordinamento giuridico alla conformazione particolare delle diverse collettività. I testi che le contengono obbediscono ad una preoccupazione di razionalizzazione che è immediatamente generatrice di un’irrazionalità nei rapporti diretti tra il potere e i cittadini. Le Dichiarazioni hanno così in particolare contribuito ampiamente ad aprire il vuoto tra gli Stati e i loro sudditi.

Tra coloro che hanno finito per prendere confusamente coscienza di questa circostanza, c’è stato persino René Cassin, il pensatore cattolico francese che fu tra i principali promotori ed animatori dei lavori che hanno portato alla Dichiarazione Universale dei Diritti dell’Uomo del 1948. Precisava così, in un convegno sui diritti dell’uomo che si è tenuto a Strasburgo nel 1960, che bisognerebbe a suo avviso dare a «questi diritti» non il valore «di un testo di diritto internazionale», ma ricollegarli allo jus gentium. Non bisognerebbe cogliere, diceva, l’individuo soltanto «nei suoi rapporti con lo Stato e la comunità internazionale, ma con tutti i gruppi sociali di cui l’individuo può far parte, la famiglia, la confessione, la professione, la città e, beninteso, la Nazione con il posto che questa occupa nel mondo moderno». Ora, lungi dall’orientarsi in questa direzione revisionista, che io considero personalmente come decisamente auspicabile, l’uso e la teoria che vengono fatti dei «diritti dell’uomo» sono sempre quelli di una filosofia universalista e di uno strumento di diritto internazionale, come testimoniano, tra gli altri esempi, gli accordi di Helsinki. C’è da temere che i diritti dell’uomo finiranno per perdere definitivamente anche la minima possibilità di evoluzione in questo senso; anche la «generosa» intenzione di partenza sprofonda sempre più nel mercanteggiare diplomatico tra politiche ed ideologie concorrenti.

In certa misura questa fine era già iscritta nell’origine storica di questo sistema di pensiero. La comparsa dell’ultimo grande trattato di diritto delle genti, quello di Vattel, è stata contemporanea alla confezione delle prime dichiarazioni dei diritti dell’uomo. Questa coincidenza mi sembra significativa giacché, a partire da quel momento, la nozione di diritto delle genti cadrà in desuetudine, al punto di cessare di essere insegnata nella maggior parte delle università dell’epoca. Essa venne appunto soppiantata dalla simbolica disincarnata dei diritti dell’uomo. Dal punto di vista della sociologia delle idee conviene parimenti rimarcare come l’apparizione della formula di una dichiarazione dei diritti dell’uomo è immediatamente contemporanea innanzitutto allo sbocciare delle nozioni che ingombrano il linguaggio moderno, quelle di capitalismo, di socialismo, di liberalismo, di ideologia - in seguito alla nascita di una filosofia dei valori che non ha più bisogno del vecchio ricorso all’ontologia ed alla metafisica -, infine all’elaborazione delle teorie rivoluzionarie in senso moderno. Vi è dunque una parentela tra tutte queste nozioni e dottrine, di modo che con ogni probabilità l’idea astratta di diritti dell’uomo resterà refrattaria a quella di diritto delle genti, tanto più che le altre nozioni affini che abbiamo citato continuano ad ossessionare lo spirito dei nostri contemporanei.

Non possiamo stupirci di conseguenza se le dichiarazioni dei diritti dell’uomo veicolano un’ideologia implicita che non è affatto centrata, come si potrebbe credere di primo acchito, sul concetto di libertà, bensì su quello di eguaglianza. Questa osservazione solleva due serie di problemi, quella del fondamento e quella dell’universalità.

Qual’è il fondamento dei diritti dell’uomo, cioè qual’è la natura giuridica di questi diritti: appartengono al diritto naturale o al diritto positivo? La dichiarazione del 1789 invoca nel suo preambolo «i diritti naturali e imprescrittibili». La Dichiarazione del 1793 evacua l’idea dei diritti naturali nel suo preambolo per non conservare che i termini di inalienabile e sacro, ma si riferisce ai diritti naturali nel suo primo articolo. In più essa riconosce, a differenza della prima, il diritto di resistenza e persino di insurrezione. Si tratta qui di un riconoscimento dei diritti naturali in quanto norma atta ad opporsi al diritto positivo oppressivo. Soprattutto, esso fa appello ad un’altra giustizia rispetto a quella che gestisce il diritto positivo. In compenso, la Dichiarazione Universale del 1948 esclude ogni riferimento al diritto naturale e ogni diritto di resistenza, fino a trasformare il diritto positivo in diritto politico. Infatti, il terzo capoverso dell’articolo 29 dichiara: «Questi diritti e queste libertà non potranno in alcun caso essere esercitati contrariamente ai fini e ai principi delle Nazioni Unite». Tutto ciò merita riflessione, soprattutto se si considera la moltiplicazione delle dichiarazioni incluse nelle costituzioni dei singoli paesi.

Appare chiaro che i diritti dell’uomo non appartengono veramente né al campo del diritto naturale, né a quello del diritto positivo, ma ad una sorta di discorso ibrido, che può dar luogo per questa ragione a interpretazioni contraddittorie. Nel migliore dei casi, esso può essere fatto consistere in diritto positivo, in quanto enumera i vari diritti e li deposita in un testo di solito dotato di una sorta di vigenza, ma integralmente costituito per esplicito o per implicito da ciò che vengono chiamate “norme di riferimento”, rimandanti in questo caso al diritto naturale. Checché ne sia, si può girare e rigirare il problema in tutti i modi: il fondamento resta equivoco. Ciò è talmente vero che, a mano a mano che le Dichiarazioni si sono succedute, gli articoli che le compongono sono aumentati di numero. Le dichiarazioni americane non comportavano che una manciata di articoli, quella del 1789 ne enumera diciassette, mentre quella del 1793 li porta già a trentacinque. Certo, la Dichiarazione Universale del 1948 non racchiude formalmente che trenta articoli, ma alcuni sono suddivisi in diritti differenti, di modo che si arriva ad un totale di una cinquantina di proposizioni. Questa proliferazione di diritti costituisce già di per sé un problema: come succede che ciò che non era fondamentale nell’una diventa fondamentale nell’altra? Chi decide che cosa è fondamentale, e secondo quali criteri? Si ha talvolta l’impressione che ciò che è «fondamentale» corrisponde a ciò che i redattori delle Dichiarazioni di volta in volta considerano tale. Se è possibile modificare il numero dei diritti fondamentali, sottoporli a revisione, aggiungerne di nuovi ed eliminarne altri, è chiaro che questi diritti ne vengono conseguentemente collocati sotto la rubrica del diritto positivo, ma perdono al tempo stesso la loro caratteristica di diritti fondamentali.

Ritroviamo gli stessi equivoci a proposito della loro pretesa universalità. Come mostra brillantemente Stefano Vaj, anche lo stesso diritto naturale nel senso più ampio dell’espressione può essere ricondotto a due tipi di universalità. La prima è di natura pragmatica, relativa e immanente, per esempio quella implicata nel concetto di jus gentium dei giureconsulti romani e di molti autori posteriori. L’universalità significa in questo caso la totalità della specie umana o di un insieme culturalmente delimitato di popoli, in ciò che vi può essere di esigenze e strutture mentali comuni. La seconda è trascendente, e si afferma prestissimo come tale già presso i primi autori cristiani. L’universalità si definisce in questo caso tramite il riferimento alla realtà divina unica, superiore ad ogni legislazione umana. Ciò significa tra l’altro che, in fin dei conti, non esiste affatto una concezione “universale” dell’universalità. Ritroviamo puntualmente la stessa difficoltà a proposito dell’universalità dei diritti dell’uomo, e ancora accresciuta per ragioni di pragmatismo politico.

La Dichiarazione Universale del 1948 non è stata approvata dalla totalità dei membri dell’ONU - che a loro volta non rappresentavano che una frazione del numero di membri che compongono l’Organizzazione attualmente -, in quanto l’URSS, i suoi satelliti e qualche altro paese non l’hanno votata. Si tratta dunque di una dichiarazione universale che non è stata accettata universalmente. Per contro, lungi da una universalità intesa nel senso di totalità, essa si ispira ad un’universalità escatologica di fini ultimi: felicità ideale, pace, libertà, eguaglianza, giustizia ideale.

Quanto alle variazioni riscontrabili, esse risultano precisamente dalla filosofia non universale che ispira ogni volta le diverse Dichiarazioni. Quella del 1789 includeva per esempio nel preambolo i diritti e i doveri del cittadino; quella del 1793 non menziona più che i doveri del magistrato, cioè dell’autorità; quella del 1948 scarta sostanzialmente ogni idea di dovere.

Assistiamo d’altra parte ai giorni nostri ad una volontà di rivedere i diritti dell’uomo in funzione delle varie filosofie che danno corpo alla rivalità delle idee nel mondo contemporaneo. L’esempio tipico è quello dell’associazione presieduta da P. Bernis, che si propone di “promuovere in Francia e all’estero” i diritti socialisti dell’uomo. Perché non elaborare a questa stregua dei diritti dell’uomo comunisti, cristiani, liberali, fascisti o magari “di centro, di destra e di sinistra”? Saranno dunque da criminalizzare coloro che non aderiranno ai diritti socialisti dell’uomo? Questa domanda non ha niente di retorico, nella misura in cui i vari paesi, non soltanto interpretano ogni volta a modo loro i diritti dell’uomo, ma si erigono ideologicamente l’uno contro l’altro in loro nome. Perseverando su questa strada, i diritti dell’uomo finiranno per diventare polemogeni, ovvero una delle possibili fonti di conflitti futuri. Il paradosso delle conseguenze di Weber rischia di trovare qui, una volta di più, conferma empirica.

A torto si vedrebbe in queste osservazioni un tentativo di confutazione teorica dei diritti dell’uomo dettato da un’ostilità metafisica. Il mio proposito è di far comprendere, seguendo un’espressione dell’autore del libro, che essi non costituiscono affatto “l’unico possibile sistema di valori”, né una figura giuridica omogenea ed autofondata, né tanto meno una preoccupazione unanime ed unitaria degli individui e dei governi. Di ciò resteranno evidentemente delusi coloro che vi hanno visto fino ad oggi la panacea universale della politica. In effetti, importa restare lucidi anche nelle materie che passano per magnanime, generose e nobili. Ora, che lo si voglia o no, i diritti dell’uomo appaiono sempre meglio come un’ideologia moralista. Si rischia di pervertire così al tempo stesso e il diritto e la morale.

È a giusto titolo che Vaj cita nella sua conclusione un testo di Jacques Ellul, in cui veniamo messi in guardia contro le false apparenze indotte da certe costituzioni di diversi paesi che, per ragioni di moda, di propaganda e di opportunità politica, iscrivono formalmente nel testo diritti dell’uomo che non applicano in realtà, e che non hanno neppure nessuna intenzione di applicare. Di conseguenza, i diritti dell’uomo servono in questo caso a coprire politiche fraudolente. È in fondo rispettare quel che di buono poteva esserci nello spirito che ha portato alla formulazione dei Diritti il rifiutarsi di sacrificare al moralismo che pretende che la salvezza dell’umanità dipenda dai diritti dell’uomo.

Benché oggi la loro natura sia a bella posta equivocata, i diritti soggettivi del singolo consociato non sono e non possono essere che una delle espressioni del diritto. Come tali, essi non possono adempiere ad altra finalità che quella che è loro propria e specifica all’interno di un ordinamento giuridico. Li si snatura e li si discredita se si prescrive loro di adempiere ad altri fini, di natura politica, economica o morale. La sola cosa che ci si può veramente aspettare da essi è che svolgano almeno pienamente la loro funzione, che ricade necessariamente nel campo del diritto. Di fatto, per sua stessa natura, il diritto gioca un ruolo regolatore nei rapporti sociali. Ora, ogni regola comporta per sua stessa definizione una permissione e un divieto, giacché là ove tutto è permesso non vi è assolutamente bisogno di regole e non vi sono neppure permessi in senso forte.

In quanto vieta, il diritto ha un carattere dissuasivo. Così, piuttosto che attribuire ai «diritti dell’uomo» una vocazione non giuridica, per «sublime» che sia, che sfugge alle possibilità del diritto, conviene servirsi pienamente del carattere dissuasivo di quest’ultimo, ridandogli il ruolo di barriera contro gli abusi e gli arbitri che fanno sempre capolino nelle società. È per questa ragione che è indispensabile, io credo, rivedere tutto il problema alla luce di uno jus gentium riabilitato e ripensato.


Julien Freund
Strasburgo, 15 aprile 1984.

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