INDAGINE SUI DIRITTI DELL'UOMO

Genealogia di una morale

di Stefano Vaj


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L’antropologia di Aristotele e il diritto naturale (1, V)

Il problema della presenza o meno di temi, atteggiamenti, radici giusnaturaliste nei testi si ripropone in termini più complessi per Aristotele. Esiste indubbiamente una diffusa tendenza espressa ad esempio dal Flückiger (op. cit.), dal Verdross (Abendländische Rechtsphilosophie, Vienna 1958), dal Composta (op. cit.), da Joachim Ritter nel suo Naturrecht bei Aristoteles (Stoccarda 1961), ad individuare una vera e propria dottrina del diritto naturale nel pensiero dello Stagirita, con particolare riferimento all’Etica nicomachea e alla Politica. Questa tendenza, pur fondata su argomenti testuali di qualche peso, è stata esaurientemente rigettata da Hans Kelsen e non appare del tutto convincente (1). Non è certo il caso di tentare di affrontare qui esaustivamente la questione. È possibile in ogni caso rinvenire anche per molte affermazioni sul pensiero di Aristotele quello stesso tipo di «inquinamento di senso» del discorso dell’autore che è legato alla prospettiva culturale del lettore e di cui abbiamo tentato di mostrare le possibilità e la portata. È d’uopo così interrogarsi sulla possibilità che apparenti professioni di giusnaturalismo non consistano invece, volta a volta, in riferimenti a «leggi naturali» intese nel senso naturalistico, prive di qualsiasi valenza prescrittiva (e consistenti invece in descrizione ed interpretazione dei fenomeni e del loro concatenarsi), eventualmente riferite anche alla sfera umana; in riferimenti alla «giustizia» come principio di equilibrio e metafora dell’ordine cosmico introdotto nell’universo dallo sguardo dell’uomo (2); in riferimenti a leggi divine ed a principi etico-giuridici razionalizzati ed eventualmente in contrasto con il diritto positivo, ma radicati in un dato etnico-tradizionale e non in una necessità naturale, universale e razionale nel senso attuale del termine.

Certo Aristotele appartiene ad una fase tarda, in cui la perdita di identità porta ad un affievolirsi della capacità di percepire le differenze e di rivendicare una specificità, in cui l’inaridirsi del mito porta alla sistematica, all’analitica ed al razionalismo tanto in campo teoretico che etico. In un certo senso, Aristotele prepara, ben più di Platone, gli strumenti e il vocabolario concettuali per l’elaborazione della dottrina del diritto naturale seguente all’avvento del cristianesimo in Europa, cui non sono estranee il generale orientamento teleologico ed eudaimonistico della sua filosofia.

Ciò non significa per altro che Aristotele non continui a far parte a pieno titolo del mondo culturale greco, a partecipare - né poteva essere altrimenti - della mentalità, dell’antropologia e del senso comune dell’Europa precristiana. Se La Chapelle (op. cit.) imprudentemente scrive: «L’unité naturelle des hommes va trouver son éminent avocat avec Aristote», Baldry replica: «On the one hand, he continues the scientific tradition, if it can be so called, with its emphasis on the unity of the human species [il filosofo si riferisce ad Antifone ed agli autori di medicina che avevano intrapreso lo studio biologico dell’uomo come specie animale]. (...) But Aristotle combines it with the idea of hierarchical gradations which we have seen in Isocrates and Plato. (...) He seems much further away from modern ideas than the medical writers and more “reactionary” in his conclusions than even Plato. (...) As a biologist surveyng and classifyng the world of living creatures, Aristotle see mankind as a single fixed and unchanging species, “simple and admitting of no differentiation” in the biological sense, standing by itself at the head of the scala naturae. It is marked off from other species by a number of physical and psychological characteristics, which are mentioned incidentally here and there in various works. Thus man is the only animal that stands upright, look straight in front of him, and send his voice in front of him. He is the only creature that laughs, and therefore the only one susceptible to tickling. He is unique in his ability to learn to make equal use of both hands, and his inability to move his ears. Whereas the psyche of plants is adapted to nutrition, and that of animals to both nutrition and sensation, man’s alone has the additional gift of logos; it is this that makes the ability to acquire knowledge, one of his permanent and necessary characteristics, and renders him alone capable of making value judgements. (...) Yet Aristotle also goes beyond any previous writer in his insistence on the eterogeneity of the human race, on the divisions that split it up into dissimilar sections» (3).

Così ad esempio riguardo alla visione aristotelica della donna, Baldry nota come essa marchi «a return to the orthodox Greek outlook: the mental and physical differences between men and women are such that women are not only inferior [anzi questa idea non trae affatto origine dalla cultura ellenica, ma è piuttosto un’importazione orientale], but fitted for a different role in life».

Ciò risponde perfettamente a quella «cultura della differenza» - come è stata definita la civiltà delle popolazioni di ceppo indoeuropeo (4) - che si esprime all’interno della comunità attraverso la valorizzazione dei ruoli, la divisione del lavoro e l’articolazione gerarchica, e che trova nell’ideologia della tripartizione funzionale la sua espressione più vistosa.

Su un altro piano, sono estremamente interessanti per quanto attiene alla nostra trattazione le posizioni aristoteliche sulla schiavitù. A quanto ci consta, nessun commentatore rimarca mai quanto siano paradossalmente proprio le affermazioni riguardanti la schiavitù ad essere le più indiziate di giusnaturalismo nel discorso aristotelico. Il filosofo di Stagira si spinge fino ad affermare che «l’intenzione della natura è stata di dotare uomini liberi e schiavi di differenti costituzioni: i corpi degli schiavi li ha fatti forti per il lavoro che devono compiere, ma agli uomini liberi ha dato corpi che sono diritti e aggraziati, per la vita di cittadini, benché disadatti per i compiti servili» (5). Partendo da una definizione teoretica dello schiavo imperniata sulla nota distinzione tra utensili inanimati e viventi, egli ne deduce la necessità e la naturalità della schiavitù. In una natura teleologicamente ordinata, alla necessità teorica e pratica della schiavitù corrisponde ovviamente l’esistenza di «schiavi per natura», naturalmente adatti a questo ruolo.

È peraltro contrario a natura «che un uomo sia padrone di un altro, quando solo per convenzione è l’uno schiavo e l’altro libero, dove per natura non vi è differenza tra di essi; in modo che la relazione tra loro è basata non sulla giustizia, ma sulla forza». Lo schiavo per natura, che partecipa integralmente della natura umana, vi partecipa al gradino più basso di una scala gerarchica che giunge fino al filosofo, al «magnanimo», al contemplativo (6).

Troviamo quindi qui, a quanto sembra, un tipico istituto di diritto naturale, per di più regolato da norme non coincidenti con l’ordinamento in fatto vigente (che riconosce anche la «schiavitù per convenzione»). Conclude il Baldry: «Rarely, it may be said, has a great thinker so sadly mistaken a transitory man-made insitution for one of nature’s laws» (7).

Eppure anche qui non si possono tralasciare alcune perplessità su di una lettura di Aristotele che si fermi a questo punto.

Innanzitutto il tono descrittivo, fenomenologico della discussine aristotelica sulla schiavitù, i cui predicati sono meglio leggibili come asserzioni di carattere sociologico e persino naturalistico-etologico che come imperativi di ordine giuridico-morale. Lo sforzo dell’autore sembra più teso a ricercare i fondamenti, la natura e la struttura del rapporto servile che ad affermare un dovere morale per lo schiavo di accettare questo rapporto e per la società di mantenerlo. È facile cogliere questa differenza pensando per un attimo, si licet dissimilia dissimilibus rebus componere, alla predicazione medioevale, questa sì di tono giunaturalista, in favore dell’obbedienza al potere temporale, arrivando fino al De monarchia dantesco. Tale carattere risalta ancora di più quando si consideri quanto anticamente il concetto generale di rapporto servile avesse portata più ampia e significato almeno inizialmente meno tecnico. Proprio in questo senso esso prende un carattere in certo modo universale, e ancora i giuristi romani parlano della servitù come di istituto juris gentium (8). Risalta allora in tutta la sua finezza sociologica e antropologica l’analisi aristotelica della schiavitù come analisi del dominio dell’uomo sull’uomo per cui eternamente si riproduce nella sfera sociale il rapporto tra uomo-oggetto, agente, ed uomo-soggetto, agito. Baldry, che si stupisce di quello che gli pare un fraintendimento marchiano, finisce così per avere torto: Aristotele non ha affatto scambiato un’istituzione contingente con una legge naturale, in quanto, anche una volta abolita la schiavitù tecnicamente intesa come istituto preciso definito giuridicamente dal diritto romano, ciò di cui parla Aristotele continua a sussistere e corrisponde appunto, per quanto ci è dato di sapere, ad una «legge naturale». Legge naturale, sia chiaro, in senso puramente sociologico ed etologico e non morale o giuridico, descrizione di fenomeni e non norma di condotta.

Quanto alla «schiavitù per natura» ci sembra che il filosofo voglia semplicemente sostenere questo: che essendo la schiavitù come istituzione fondata su certi presupposti e finalizzata a certi scopi, la sua realtà sociale deve essere tale da corrispondere a questi presupposti e a questi scopi, ovvero alla distinzione dei ruoli e delle dignità nascente da un’ineguaglianza naturale. Soltanto a questa condizione la schiavitù costituisce l’espressione di una gerarchia e di una differenziazione naturale tra due esseri umani e risponde a «giustizia», ovvero al principio di buon funzionamento del corpo sociale e del mondo secondo l’ideologia ellenica. In caso contrario la schiavitù sussiste in fatto, «basata sulla forza» - senza che per questo Aristotele ne richieda l’abolizione - ma non corrisponde più ad un’esigenza di giustizia, esigenza dell’ideologia ellenica di fronte al dato della natura umana.

Il discorso trova conferma nelle ulteriori indicazioni dell’autore, sintetizzate dal Baldry nel saggio più volte citato: «Where in the world around him does Aristotle fin these “slaves by nature”? They do not necessarily coincide with those who are now slaves in fact, some of whom owe their lot only to convention and force. In these cases the objections to slavery are justified, for “fit cannot be said that a man who does not deserve slavery is really a slave”. (...) We are not explicitly told who are those “who do not deserve slavery”, but fit seems to be implied that they include men of noble birth, and all Greeks. Aristotle follows the view probably held by most Greeks since the fifth century, and maintained by Plato in the Republic, that fit is the barbarians who are natural slaves. He quotes with approval the line put finto Iphigenia’s mouth by Euripides: “It is right for Greeks to rule over barbarians”. These who say that barbarians are slaves are really following, the principie of natural slavery. The barbarians endure despotic rule without complaint because they are more slavish in character than the Greeks, so that (a claim with recalls Isocrates) “the Greek race could rule all mankind, if fit attained political unity”. War, through fit may sometimes lead to wrongful enslavement of those who do not deserve fit, is justified when fit is waged “against wild beasts or against men who are fitted by nature to subjection but do not accept fit” in order to “become masters over those who deserve to be slaves”. It is not surprising that according to Plutarch Aristotle advised Alexander “to behave as a leader towards Greeks, but as a master towards barbarians, and while caring for Greeks as friends and kinsmen, to have the same attitude to barbarians as to animals or plants”».

Lungi dalla mentalità universalista giusnaturalista, ritroviamo così in Aristotele le forme tipiche della Weltanschauung indoeuropea, dal rapporto complesso tra la volontà di conquista e il senso della differenza, con i problemi che ne sorgono, alla costituzione politica aristocratico-comunitaria in contrasto con gli ordinamenti dispotici, alla dottrina della dominazione dei popoli sottomessi che ritroveremo in veste latina nel «regere populos, parcere subjectis ac debellare superbos» virgiliano.

Certo, nell’ambito dell’ellenità, la filosofia di Aristotele è filosofia della civilizzazione. Scrive Spengler: «In ogni grande civiltà vi è un pensiero ascendente, che pone fin dall’inizio le questioni fondamentali e con una crescente forza di espressione spirituale le esaurisce con risposte sempre nuove (...); del pari, vi è un pensiero discendente, per il quale i problemi del conoscere sono in certo modo scaduti, superati, senza più significato. Vi è un periodo metafisico, prima religioso e poi razionalistico, nel quale il pensiero e la vita hanno ancora del caos in sé e che nella sovrabbondanza delle sue possibilità dà forma a un mondo; e vi è un periodo etico, nel quale la vita va a costituire a se stessa un problema e deve dedicare, il resto della forza formatrice filosofica alla propria conservazione. Nel primo di tali periodi, la vita si rivela; nel secondo essa diventa un oggetto. L’una è “teoretica”, cioè contemplativa in senso superiore, l’altra è forzatamente pratica. (...) L’etica assurge ora ad un valore ben diverso di quello di una parte di una teoria astratta. A partire da ora essa è la filosofia per eccellenza, che incorpora tutti gli altri domini; la vita pratica va a costituire il centro della riflessione. La passione del pensiero pura viene meno. (...) Si distingue così la filosofia di prima e dopo Aristotele [Spengler sta appunto parlando della filosofia dello Stagirita]; prima di lui un cosmos grandiosamente concepito, appena arricchito da un’etica formale; dopo di lui, l’etica stessa come programma, come necessità, con una metafisica frettolosamente e secondariamente concepita per sua base» (9). L’opinione spengleriana appare in parte come una forzatura, e forse anche tende ad invertire alcuni aspetti dello sviluppo del pensiero greco. Non ha torto però l’autore tedesco quando, in un altro passo, non riferendosi direttamente ad Aristotele, nota: «Trasvalutazione o inversione di tutti i valori, questo è il carattere più intimo di ogni civilizzazione. Si comincia col dare una diversa impronta a tutte le forme della preesi stente civiltà, col capirle e con l’adoperarle in un altro modo. Non si crea più, si limita a cambiare il senso di ciò che esiste» (10). Spengler fa risiedere qui il punto di svolta nello «stoicismo ellenistico-romano», per quanto riguarda il ciclo della civiltà classica, ma è innegabile che Aristotele stesso, quale figura di confine, anticipa già sotto molti aspetti questo esaurimento che costituirà l’humus elettivo della nuova grande tendenza epocale, la civiltà cristiano-occidentale.

Ciononostante, l’antropologia aristotelica resta a pieno diritto nell’ambito del panorama ideale antico, e solo dopo essere stata filtrata dal tomismo assumerà realmente aspetti di fondamento concettuale del giusnaturalismo cristiano (11). Prendiamo ad esempio la trattazione nel primo libro della Politica sulla socialità naturale degli uomini o l’arcinota definizione dell’uomo come ζῷον πολιτιϰόν, che ad esempio il La Chapelle (op. cit.) ascrive a credito umanista e giusnaturalista del filosofo. Tale impostazione aristotelica appare invece esattamente il contrario di quella che sola rende possibile pensare il giusnaturalismo e i Diritti dell’Uomo, a partire dall’idea di umanità, di individuo, di separazione tra politica e religione e tra politica e morale, di invidualismo etico, di referenti universali indipendenti dalla comunità di appartenenza.

La politicità dell’uomo nel pensiero di Aristotele trasparentemente non si configura affatto come un «accidente», un attributo di carattere morale che prescrive ad un essere già compiutamente umano di condividere la sua vita con il suo generico prossimo, secondo il significato che ci sembra correntemente anche se implicitamente dato alla formula; ma costituisce carattere essenziale, costitutivo e definitorio dello stesso status di uomo, uomo che è tale solo ed in quanto partecipa di una polis, ovvero di una comunità politica definita - e per conseguenza di una cultura, di una lingua, di una storia, di una stirpe e di un destino che condivide con altri uomini e che strutturano l’Umwelt che rende possibile e dotata di senso la sua vita (12). Così la comunità acquista una priorità ontologica sul singolo, che non è mai concepito come individuo-in-sé, come atomo dotato di uno status di umanità, ma sempre come persona concreta, esistente e definibile solo ove non si prescinda dalla complessa trama di rapporti sociali e politici in cui è immersa. Così il tradimento e il sacrilegio si confondono e diventano la colpa più grave; l’ὀστραϰισμός, la sacertas, linterdictio aquae et ignis, il bando che rende Freivogel, divengono la pena suprema.

L’uomo è quindi più «sociale delle api», che nell’alveare trovano soltanto il proprio quadro di vita. «Colui che di sua natura e non per la forza del caso esistesse senza alcuna patria, sarebbe un individuo miserrimo, secondo il detto di Omero: “Un senza-focolare, un senza-famiglia e un senza-legge”: un bruto o un semidio» (molto al di sopra o al di sotto dell’umano). Sarebbe cioè «come una bestia» ovvero al di qua dell’ominazione, che ha costituito l’uomo come un Kulturwesen, o un eroe fondatore, che si pone al di fuori di una tradizione e di una città nel momento in cui è egli stesso a fondarne una. (Politica, 1, 2, 1252b).


Stefano Vaj


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(1) H. KELSEN, «Die Grundlage des Naturrechtslehre», in Das Naturrecht in der politischen Theorie, Schmolz, Vienna 1963.

(2) Vedi nota 42.

(3) Op. cit.

(4) JEAN CLAUDE RIVIÈRE, A la découverte des Indo-européens, Copernic, Parigi 1977 [trad. italiana: Georges Dumézil e gli studi indoeuropei, Settimo Sigillo, Roma 1993).

(5) Passo citato dal BALDRY (op. cit.) e ancora nel Sommario di storia della filosofia di MARIO DAL PRA, La Nuova Italia, Firenze 1979.

(6) W. JAEGER, Aristotele, Firenze 1935.

(7) The Unity of Mankind in Greek Thought, op. cit.

(8) Cfr. per tutti Gaio.

(9) OSWALD SPENGLER, Il tramonto dell’occidente, [versione spagnola Web], op. cit.

(10) Ibidem.

(11) In questo senso LEO STRAUSS in Naturrecht und Geschichte, op. cit.

(12) Singolarmente questo punto di vista antropologico conosce oggi una delle sue più vistose riemersioni nel pensiero della maggior parte degli etologi e dei sociobiologi contemporanei. Facendo risalire l’organizzazione sociale a prima dell’ominazione che si svolge nel suo ambito e condizionata da questa, il pensiero scientifico odierno rende quanto meno problematiche le teorie individualiste e/o contrattualiste che pretendano di descrivere stati di naturastoricamente o preistoricamente esistiti.